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Il no al burqa è un no all’islamismo

di Souad Sbai

La maggioranza degli elettori svizzeri, che ha votato per il divieto a indossare in luoghi pubblici burqa e niqab, viene tacciata di razzismo da neofemministe e islamo-gauchisme. In realtà qui non si tratta di libertà religiosa ma di abuso a fini politici (con danno per le donne) di un indumento, funzionale all’agenda ideologica di movimenti fondamentalisti. Anche l’Italia dovrebbe prendere esempio dalla Svizzera.

Dalla Svizzera ci è giunto un nuovo esempio di come pandemia e democrazia non si escludano vicendevolmente. I cittadini svizzeri si sono recati alle urne domenica scorsa per dirimere la spinosa questione del velo integrale per le donne musulmane. A risultare vincitrice con il 51,2 per cento è quella fetta di popolazione che ha voluto che venisse stabilito il divieto d’indossare in luoghi pubblici i famosi “burqa” e “niqab” (quest’ultimo lascia scoperti solo gli occhi). Una maggioranza risicata, sottolineano da sinistra i critici dell’esito della consultazione, sebbene una più accorta lettura dei dati ci dice che il “no” a “burqa” e “niqab” è prevalso in 20 cantoni su 26. Ciò significa che un’ampia maggioranza di elettori ha le idee chiare sul significato della libertà religiosa, mentre ad avere le idee confuse resta una minoranza seppur rumorosa, che ritiene che il bando del velo integrale sia discriminatorio.

Anche in Francia, Belgio, Austria e Danimarcadove il divieto è già in vigore, non sono mancate polemiche e tensioni, che infuriano tuttora. Specialmente in Francia, da quando il presidente Macron ha deciso di prendere contromisure contro il “separatismo” islamista, ovvero la creazione in territorio francese di enclave dove a vigere non è la legge dello stato, ma la “sharia” nella sua versione più radicale, che considera il velo, ancor meglio se integrale, alla stregua di un vessillo di guerra, una bandiera piantata sul terreno a indicare il controllo del territorio e quindi il trionfo sul nemico “infedele”.

È libertà religiosa, questa, o si tratta piuttosto di un abuso a fini politici dell’indumento, funzionale all’avanzata dell’agenda ideologica di movimenti fondamentalisti ben radicati in Europa, come i Fratelli Musulmani? La domanda è retorica, naturalmente. Ma non per i militanti dell’Islamo-gauchisme, neologismo francese coniato recentemente per indicare la non-santa alleanza tra islamisti ed esponenti di sinistra, uniti nel brandire a destra ma anche a manca la clava della cosiddetta “islamofobia” per colpire ogni forma di critica verso l’estremismo, specie se le denunce colgono nel segno.

Pertanto, non c’è da stupirsi se la maggioranza degli svizzeri venga adesso tacciata di razzismo o nefandezze simili dalle stesse paladine del “neo-femminismo”, che hanno ereditato la libertà dei pantaloni e della minigonna e festeggiano l’8 marzo, mentre condannano le donne musulmane a una condizione di “sottomissione” permanente in nome di un malinteso multiculturalismo. È alla “sottomissione”, infatti, che corrisponde la reale funzionalità del velo, totale e non, secondo l’ottica degli islamisti, per i quali le donne sarebbero il “centro della casa” dove però è bene che restino rinchiuse.

Questa è la “mentalità”, nuda e cruda, che peraltro non trova un riscontro autentico nella religione che si vantano di rappresentare. Indorare la pillola di libertà religiosa, di principi e di valori, è un’evidente mistificazione che tuttavia in ambienti che si auto-proclamano “progressisti” è risultata essere una formula vincente. Ne è un esempio l’Italia delle “candidate perché velate” e delle campagne all’insegna dell’“indossa il velo anche tu”, lanciate sui social media dalle nuove leve del fondamentalismo, giovani donne e uomini finiti nella rete dell’indottrinamento islamista, guardati con benevolenza da una certa sinistra.

Che fare? In primo luogo, non soggiacere. Le accuse

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